6 Echos – nouvelles du monde de la danse
20 La couverture :
La danse espagnole, voire les danses espagnoles
28 En scène – critiques :
The Royal Ballet, Londres
Ballet de Hambourg
Het Nationale Ballet, Amsterdam
Ballet du Grand-Théâtre de Genève
Ballet Royal Suédois, Stockholm
Michael Clark Company
Ballet du Capitole, Toulouse
Cie Dorky Park, Costanza Macras
Alvin Ailey American Dance Theater
Ballet de l’Opéra de Zurich
Cie Karas, Saburo Teshigawara
Cie Jean-Claude Gallotta
Ballet du Nord, Olivier Dubois
Système Castafiore
Collectif Kiss & Cry
Mancini/Gilbert/Ganio
Jan Fabre
Royal New Zealand Ballet
Cristiana Morganti
46 Festival de La Havane: Cuba mondialisée
48 Adieu à Yvette Chauviré, icône du ballet français
50 BalletTube: Sur la table rouge
51 Multimédia : TV, Web, Dvd, Cinéma...
54 Programmes TV
56 Calendrier international
Ci sono tre grandi generi di danza in Spagna: la danza spagnola vera e propria nelle sue molte varietà (compresa la raffinata Escuela Bolera di origine sette-ottocentesca e il flamenco teatrale), il balletto classico e la danza contemporanea d’àmbito europeo. Del primo genere, quello delle “danze spagnole”, è depositario e interprete autentico il Ballet Nacional de España. Roger Salas ne osserva lo stato attuale valutando un recente programma in omaggio alla figura storica di Antonio Ruiz Soler
La danza spagnola si trova oggi in linea con la tendenza ormai “globale” a recuperare il proprio patrimonio del passato e il repertorio storico. Il Ballet Nacional de España (che è la prestigiosa compagnia nazionale di danze spagnole, da non confondere con la Compañía Nacional de Danza, oggi diretta da José Carlos Martínez e di “normale” profilo classico-moderno internazionale) non è indifferente a questa corrente estetica. Fin dagli anni della direzione artistica di Aida Gómez (1998-2001), questa corrente vi si è rafforzata nel Ballet Nacional ed è passata per fasi di maggiore o minore presenza e fortuna.
Anzitutto va chiarito che in Spagna ci sono tre grandi “generi” di danza d’arte che costituiscono poi l’offerta reale di spettacoli: il balletto accademico (in tutte le sue diramazioni, dal classico-romantico a quello più attuale); la danza contemporanea (che con tutte le sue varianti rientra nel quadro europeo della danza e teatro-danza contemporanei) e il “balletto spagnolo” o danza spagnola propriamente detta, che riunisce tutte le possibilità e gli stili che vanno dalla Escuela Bolera (che nasce nel XVIII secolo e che ha una storia parallela e molto simile a quella del balletto accademico) alle danze stilizzate (frutto dell’assimilazione e dell’adattamento del variegato folclore spagnolo) al flamenco (che è parte essenziale della danza spagnola, ha contaminato tutti gli altri stili e ha una sua forma teatrale moderna).
La grande ballerina, maestra e coreografa Mariemma (che danzò e creò alcuni lavori anche al Teatro alla Scala), sosteneva una tesi che ha le sue ragioni secondo cui la danza spagnola era una sola con varie ramificazioni, e che separarle o considerarle espressioni estranee l’una dall’altra era un errore di “vera incultura” che metteva in grave pericolo la sua conservazione e il suo sviluppo.
Il problema della danza spagnola è sempre stato la stabilizzazione e la corretta conservazione del proprio repertorio.
Le compagnie di carattere nazionale che hanno preceduto il Ballet Nacional de España sono state il Ballet Antología e il Ballet Nacional Festivales de España, in cui erano molto presenti le “danze stilizzate” e il cosiddetto “classico spagnolo”, un genere corale e complesso, adatto ai balletti con un soggetto.
Le compagnie nazionali spagnole sono istituzioni relativamente giovani, che arrivano al mezzo secolo di vita; sicché si tratta di un tempo troppo breve per poter parlare seriamente della formazione di una “scuola” (in senso artistico) e di un repertorio in sé. Ma è pur vero che non sempre tutto è stato fatto nel modo migliore da quando nel 1978 fu fondato il Ballet Nacional Español. Il suo primo direttore artistico, che fu Antonio Gades, chiamò subito alcune personalità maggiori della danza spagnola degli anni precedenti: Pilar López, Mariemma, Antonio Ruiz Soler, Juan Quintero e Rafael Aguilar, tra gli altri.
Non possiamo dire che l’attuale direttore del Ballet Nacional de España, Antonio Najarro (41 anni, nominato nel 2011) goda dell’appoggio totale della compagnia. Ci sono stati di recente gravi conflitti, come non si ricordavano dai tempi in cui María de Ávila diresse con giusta mano di ferro le due compagnie statali spagnole (Ballet Nacional de España e Ballet Nacional Clásico), riunite dal 1983 all’86 appunto sotto un’unica direzione artistica.
Il nuovo programma di coreografie storiche di Antonio Ruiz Soler (1921-1996, detto il “Grande Antonio”), presentato dalla compagnia come un omaggio a questo celeberrimo danzatore e creatore di danza spagnola, ha riscosso un notevole apprezzamento da parte del pubblico e della critica, per quanto sia ancora lontano dalla vera eccellenza. Lo spettacolo, a Madrid tra giugno e luglio scorsi, doveva essere il momento culminante del mandato di Antonio Najarro alla guida del Ballet Nacional; tuttavia ha finito per trasformarsi in un momento increscioso con scioperi, cancellazioni di spettacoli, manifestazioni sindacali davanti al Teatro de La Zarzuela di Madrid, il che ha inciso in generale sulla qualità e la produttività artistica. Ai danzatori e tecnici del BNE non si poteva chiedere di più. Il Ministero della Cultura spagnolo ha risposto a tutti questi disordini prolungando di tre anni il contratto di Najarro alla direzione del BNE.
Le opere coreografiche che formavano la serata in questione, dello stesso Antonio Ruiz Soler o del suo repertorio, sono creazioni appartenenti a un patrimonio che è base e colonna portante del balletto spagnolo della nostra epoca, e meriterebbero un trattamento più chiaro ed equilibrato di quello che hanno ricevuto finora; sono l’abbecedario e l’origine di tutto quello che è stato creato successivamente in quasi tre quarti di secolo ed è per questo che gli storici della danza parlano della danza teatrale spagnola del XX secolo come di un’arte moderna, un’espressione delle arti contemporanee che comincia a nutrirsi di vita e a prendere forma insieme alle Avanguardie del ‘900.
Lo spettacolo visto al Teatro de La Zarzuela è stato innegabilmente un grande sforzo, ma non una riuscita totale. Secondo anche quanto espresso da maestri importanti, la compagnia conta oggi molti danzatori con un notevole talento, ma che avrebbero bisogno di lavorare maggiormente sullo stile autentico di quel che danzano.
I titoli in programma erano: Eritaña (musica di Isaac Albéniz, 1960); La taberna del toro (1956); Zapateado (musica di Pablo Sarasate, 1946); Fantasía galaica (musica di Ernesto Halffter, 1956); e El sombrero de tres picos (“Il tricorno”, musica di Manuel de Falla, 1958).
Quanto alla “taranta” della Taberna del toro, è stato alquanto bizzarro vedere questo frammento da solo, poiché pare fuori luogo, senza un nesso con le altre coreografie della serata. E nello specifico del più famoso Sombrero de tres picos vanno dette alcune cose essenziali. Antonio Ruiz Soler presentò una versione di questo balletto con scene di Manuel Muntañola al Teatro del Generalife di Granada con la partecipazione della celebre ballerina Rosita Segovia nel ruolo della Molinera, il 24 giugno 1958 e – come fece notare subito il critico musicale Antonio Fernández-Cid – dava l’idea che il compositore Manuel de Falla (morto in esilio in Argentina nel 1946) “avesse trovato la sua équipe ideale”, facendo riferimento al fatto che tutta questa équipe era spagnola. La versione tardiva dello stesso Antonio Ruiz Soler del 1981, che usava scene di Pablo Picasso, con il BNE fu la dimostrazione del potere di un’astuzia pubblicitaria che condannò all’ostracismo e all’oblio le scene originali di Muntañola e che creò una confusione accettata poi dai danzatori, dalla critica e dalla storia; infatti la scenografia di Picasso era stata ideata per un altro balletto molto diverso: quello di Léonide Massine per i Ballets Russes di Diaghilev, un esercizio riuscito di stilizzazione ballettistica delle arie spagnole, oggi ancora in repertorio.
La confusione è poi stata avallata da un altro coreografo e direttore del BNE, José Antonio Ruiz, che ha firmato una sua propria versione nel 2004, usando sempre le scene di Picasso.
Però, quando il Grande Antonio morì, fu vestito col mantello che Muntañola aveva creato espressamente per lui all’origine del Sombrero de tres picos.
Tornando al tema degli stili e della tecnica dei danzatori, va considerato che la formazione di un danzatore spagnolo del genere di cui stiamo parlando, integra nella danza spagnola la tecnica classico-accademica. Negli ultimi decenni è sempre stato così, per coerenza con l’idea del “ballerino completo”, come quello dell’Ottocento, capace di affrontare il repertorio del balletto classico e quello spagnolo. Probabilmente fu María de Ávila l’ultima grande rappresentante di questo tipo d’artista, quando era “prima ballerina” del Gran Teatro del Liceo di Barcellona negli anni ‘40 del Novecento.
Il concetto di “danzatore completo di danza spagnola” continua ad essere molto importante e decisivo quando si tratta della conservazione di un repertorio che è in sostanza creato e disegnato per questo tipo di interprete. Sono stati danzatori molto completi Aída Gómez e Joaquín Cortes; e, nella generazione attuale, Sergio Bernal, che corrisponde con le sue superbe doti naturali e di formazione a questo profilo ideale.
Roger Salas
BALLET2000 n° 263, dicembre 2016
Merce dixit: coreografia sì, compagnia no
Merce Cunningham sapeva quel che voleva: prima di morire all’età di 90 anni, nel 2009, aveva deciso quel che sarebbe dovuto succedere dopo la sua scomparsa. In breve, la Merce Cunningham Dance Company si sarebbe esibita in tournée per due anni dopo la sua morte ma poi avrebbe dovuto chiudere per sempre. Tuttavia il coreografo ha concesso ad altre compagnie di danza di ottenere i diritti per rappresentare i suoi lavori. Ma così, non c’è più una compagnia Cunningham (quella a suo tempo diretta dal coreografo stesso), in grado di approvare o correggere il modo in cui sono danzate oggi le sue coreografie.
Né sarebbe dovuta esistere una compagnia Cunningham trasformata in un gruppo eclettico, come è stato il caso delle compagnie di Martha Graham, José Limón, Paul Taylor o Alvin Ailey. La ricerca del nuovo (presentando lavori di qualità eterogenea ed estetiche disparate accanto al repertorio del coreografo-fondatore) è una possibilità. Ma, il più delle volte, finisce per svalutare la compagnia originale.
In questo caso, la compagnia non c’è più. Ma c’è il Merce Cunningham Trust, cioè una fondazione, un’entità amministrativa che detiene i diritti del coreografo e che può concederli alle compagnie di tutto il mondo seguendo quest’obiettivo dichiarato: “Il Trust promuove l’eredità artistica di Cunningham come un patrimonio vivo da tramandare alle future generazioni.” Il termine ‘eredità’ è la parola chiave… un’eredità che nel caso di Cunningham porta con sé promesse ma anche rischi.
Irène Lidova, critico ed animatrice di danza, personalità di riferimento per tutto un ambiente e lungo varie generazioni, è stata collaboratrice specialmente fedele ed affezionata della nostra rivista; e, per quanto possa contare, mia amica e referente assoluto di tutta la mia attività finora - e ancora - nel campo che ho scelto, o che m’è capitato.
Irina Kaminskaya – Lidova dopo il matrimonio con Serge Lido (nome francesizzato del russo Serghei Lidov) – era nata a Mosca nel 1907. Aveva un’età, dunque, per la quale l’evento dovrebbe avere il tono sereno d’un compimento naturale, e di una natura anzi assai generosa non tanto nel concederle una vita lunga, quanto nel conservarle e vorrei dire accrescerle fino all’ultimo un’intelligenza della vita e un così intenso amore per essa che non può credere chi non l’abbia conosciuta da vicino.
Ci vorrebbe altro che questa pagina, ma dirò brevemente quel che ho saputo di lei in ventisette anni di frequentazione, di persona a Parigi o in giro per il mondo del balletto, oppure a voce, sul filo telefonico quotidiano.
Bambina, negli anni della rivoluzione bolscevica era emigrata da San Pietroburgo (dove la sua famiglia si era trasferita) a Parigi, uscendo dalla Russia devastata attraverso un lago gelato in Finlandia, nascosta in una slitta. Nella capitale francese, dove l'aspettavano alcuni parenti, la famiglia s’installò in un tranquillo appartamentino nella rue Chernoviz, dove Irène ha abitato, poi col marito e infine sola, fino ad oggi.
Come molte figlie di emigrati russi prese lezioni di danza classica nei piccoli studi parigini dove insegnavano, per sopravvivere, alcune ex ballerine imperiali, tra cui la grande Olga Préobrajenska. Era soltanto un’allieva amatoriale, ma la passione per la danza la contagiò per sempre. Dopo gli studi di arte e di lettere, entrò nel giornalismo come redattrice di una rivista d’attualità, Vu. Lì riuscì a infilare i suoi primi articoli di danza, cominciando così a conoscerne gli artisti. Serge Lifar, che regnava sul balletto all’Opéra di Parigi, fu il suo primo idolo ("sono stata fan di molti, ma adoratrice solo di uno, Lifar" mi disse una volta), e fu il primo palpito di quel sintomo della ballettomanìa che è l’innamoramento, devoto e appassionato, per i danzatori (da lei sempre non solo riconosciuto, ma coltivato, con uno strano misto di lucidità e di abbandono). Conobbe un compatriota studente di economia, si sposarono, lo contagiò della sua passione e lo trasformò in uno dei più famosi fotografi di danza del secolo. I venticinque album fotografici, uno all’anno, di Serge Lido coi commenti (e soprattutto con le scelte) di Irène Lidova sono una testimonianza straordinaria di tutta un’epoca del balletto.
Ci furono anni difficili – la guerra, l’occupazione, l’immediato dopoguerra – ma vitali e creativi. Un giorno, alla scuola dell’Opéra di Parigi, scelse per l’obiettivo di Serge Lido tre ragazzini: erano Roland Petit, Jean Babilée e Jean Guélis. L’occhio infallibile era una sua dote primaria; a teatro, anche negli ultimi anni, sofferente e con la vista diminuita, in tutto un corpo di ballo individuava subito, magari nell’ultima fila, un giovane talento; e la serata era illuminata dall’entusiasmo della scoperta.
A Roland Petit affiancò una ballerina e coreografa enfant prodige, Janine Charrat, li portò dal suo amico Jean Cocteau, s’inventarono una compagnia da pochi soldi, con Jean Babilée, Ethery Pagava, poi Renée (Zizi) Jeanmaire e altri protetti di Irène, e nacquero i primi capolavori del balletto francese del Novecento. In seguito, collaborò tra l’altro con la famosa e avventurosa compagnia del Marchese di Cuevas.
Era fedele nei suoi amori artistici, ma i suoi giudizi erano molto decisi. Un giorno, molti anni dopo quegli inizi poveri e felici, disse a Roland Petit alla fine di un suo spettacolo: "Allora, Roland, quando ci farai un vero balletto?" Ora intendo che cosa volesse dire; lui forse non lo volle intendere, si offese e non le parlò mai più. Gli artisti sono così, tutto il bene è semplicemente dovuto, una parola sgradita è un tradimento irreparabile. Irène lo sapeva meglio di chiunque; continuò ad amarlo e a dire e a scrivere che Roland Petit era il più grande talento che avesse mai incontrato.
C’erano, nell’ambiente, anche gli amici sicuri, e nell’appartamento della rue Chernoviz passava regolarmente mezzo mondo della danza, mentre il telefono era il rimedio quando il salotto restava deserto. Nina Vyroubova, Yvette Chauviré, Janine Charrat, Joseph Lazzini, Mario Porcile (il direttore del Festival di Nervi, luogo incantato per Lidova, dove abbiamo passato estati memorabili), Paul Szilard, Lilavati e Bengt Häger, John Taras, Carla Fracci e Beppe Menegatti, il critico John Percival, il regista Dominique Delouche, erano tra i più assidui, fino agli ultimi giorni. Anche Rudolf Nureyev, nei primissimi tempi a Parigi, era ospite fisso alle cene russe di Irène; ma se ne dimenticò presto. Per il balletto russo, e dunque per gli artisti russi, aveva un passione speciale; era forse un modo di ritrovare le sue radici almeno nell’arte che amava, di sentirsi russa, di parlare la sua lingua. Era fiera di essere un po’ la loro "ambasciatrice" in Occidente, soprattutto negli anni in cui i contatti erano rari e difficili. Di alcuni divenne amica: di Maya Plisetskaya, degli amatissimi Katia e Valodia (Maximova e Vassiliev), poi dei più giovani Vladimir Derevianko e Vladimir Malakhov.
Tra gli amici più vicini, s’era creata una sua famiglia elettiva, soprattutto dopo la morte inattesa del marito, nel 1984, che l’addolorò grandemente. C’era anzitutto Milorad Miskovitch, altra sua scoperta dei tempi felici, danzatore ammirato e amico di sempre; una sorta di figlio, che in questa veste ha ricevuto gli amici all’ufficio funebre del 31 maggio 2002, nella chiesa russa di Parigi della rue Daru. L’altro "figlio", di acquisizione più recente, ero io. E nell’ultima generazione, Toni Candeloro, che abitava nella stessa casa, nei suoi anni di studente e danzatore a Parigi, formando con lei a tutte le uscite una strana coppia, singolarmente affiatata; si sa, coi figli ci si può talvolta irritare, ma coi nipoti l’intesa è incondizionata.
Dimenticavo quasi di dire, tanto era nota, della sua intelligenza fuori dal comune; intelligenza non convenzionale, colta ma intuitiva, che andava immediatamente al nocciolo delle cose dell’arte e della vita, e saldamente poggiata su una memoria formidabile. A novant’anni, ricordava il cast completo di uno spettacolo di mezzo secolo prima, o raccontava in pochi tratti precisi la carriera e la personalità di un artista dimenticato da tutti. Ma non era, la sua, la memoria maniacale dei vecchi, fissata nel passato; ricordava tanto una giornata di mezzo secolo fa quanto quella di ieri, s’interessava all’oggi ed era curiosa del domani. Scoprire un giovane coreografo o un danzatore di talento era per lei più importante che aver frequentato Lifar o Robbins o aver visto danzare mille volte Alicia Markova. Però non aveva, di certi vecchi, il patetico vezzo di voler sembrare alla moda; era, soprattutto negli ultimi anni, davvero al di sopra della mischia, sicura nella sua sapienza antica e attentissima al presente. Classico, moderno, contemporaneo, le sembravano parole prive di senso. Amava Giselle ma aveva spinto e difeso il giovane Merce Cunningham in Francia quando ancora nessuno gli faceva caso.
Ma qui sto scrivendo io un "incontro", la specialità che Lidova aveva dedicato a BallettoOggi per tanti anni! Forse per averne letti, tradotti, corretti, discussi tanti, me n’è uscito ora dalle dita uno, l’ultimo. Mi mancherà molto – e sono certo che ti mancherà, caro nostro lettore o lettrice – quella pagina verso il fondo della rivista, con quel vecchio viso occhialuto e sorridente ("c’est votre journaliste américaine", scherzava), col suo testo stringato, tutto periodi brevi e incisivi, che incorniciava una bella foto di Serge Lido. E mi sembra inimmaginabile non alzare più il telefono, ogni sera verso le sette, per commentare le nostre povere cose della danza, o per chiederle qualcosa che d’ora in poi cercherò inutilmente nei libri. Una luce s’è spenta e c’è un vuoto in più, nel mondo della danza, e nel mondo.
Alfio Agostini
BallettoOggi n. 137 – luglio 2002